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Locarno, Switzerland
Titoli accademici: Licenza in Psicologia clinica, Diploma di specializzazione in psicologia clinica. Professione: Psicologo e Docente

Friday, August 12, 2011

CHE CAOS!!!!

Quante volte ci è capitato di dirlo ad alta voce o solo di pensarlo?

Kaos, nel suo più intimo etimo, significa ‘Oscurità’, ‘tenebre’  e riconduce facilmente all’idea di ‘baratro’ o  spaccatura nel terreno’. Questa, nel ricordo delle origini tramandato dal mito, è un’immagine chiave: il greco chaós  – dal verbo cháinein  che significa ‘spalancarsi,  aprirsi’ -  è di radice indoeuropea; da esso deriva anche il  termine latino hiatus, potrebbe essere tradotto con il termine di ‘ Fenditura’.
I mondi meravigliosamente ‘creati’, ‘costruiti’ o ‘organizzati’ conservano, nella fenditura, traccia di un originario ‘disordine’. Ci viene anche ricordato che qualsiasi organizzazione – anche la più perfetta -  presenta lacerazioni, crepe, lati nascosti, difetti e contraddizioni e che, conseguentemente, andare a guardare più da vicino queste fenditure non è una perdita di tempo! Anzi, è proprio in questi interstizi che appare più chiaramente visibile l’originaria natura dell’organizzazione, addirittura potremmo dire il suo ‘codice genetico’, il suo punto d’origine e la sua stessa storia.
E anche l’Uomo, nella sua dualità, intuisce che  tutto ciò che sta nel mezzo conosce la polarità degli estremi”; pertanto necessario che egli (l’Uomo) partecipi ad entrambe le evoluzioni.

Ma, se di fenditura si parla, tra quali elementi essa si verifica? Che cosa ci mostra tale fenditura originata dallo stesso insieme  Unico ma che, nel contempo, crea contrapposti fino a farne rivelare l’apparente ambiguità?
Si pone qui una questione molto antica: quella relativa alla contrapposizione tra le figure di Apollo e Dionisio.

La cultura di Apollo, caratterizzato come il ruolo,  rappresenta un´organizzazione ordinata e strutturata che opera con funzioni chiare ed una gerarchia definita razionalmente. Apollo rappresenta così il dio dell´ordine, delle leggi e della burocrazia, divenendo  l´emblema della strategia fondata su una precisa definizione dei compiti e sottolinea, in un  certo senso, il principio maschile.

La cultura di Dioniso enfatizza d’altro canto l’individualismo, la soggettività, adombrando quindi l´importanza dell´organizzazione e, soprattutto, il senso della collettività che si organizza secondo regole prestabilite. Non è un caso se  Dioniso è  il dio preferito dagli artisti e dai professionisti che in qualche modo hanno a che fare con la creatività; egli rappresenta la valorizzazione delle competenze individuali piuttosto che la messa a punto di una macchina collettiva (oggi diremmo aziendale) che, seppure efficace, è sicuramente anonima.  Dionìso, considerato il ‘mysterium tremendum’,  costituisce e rappresenta l’ebbrezza, il rapimento dei sensi, l’estasi, una deità disuguale ma soprattutto irregolare, misto di insolenza, di serietà, di follia. Il legame di Dioniso con il femminile è fortissimo.


Apollo e Dionisio rappresentano  due occhi dello stesso  Cielo.  Come Sole e Luna, nella loro diversità, vegliano e proteggono gli uomini e  la loro opera, creando sorgenti di luce sia per l’agricoltore che dovrà mietere  il grano sia per  rasserenare le notti nella  solitudine e nell’angoscia dei pescatori, essi corrispondono a due forze incommensurabili della Natura che, seppur nella fenditura della dualità, assicurano la vita, il suo perenne svolgersi nell’arco dei millenni e - proprio in virtù della loro apparente contrapposizione - danno luogo ad una dualità che può essere risolta solo e soltanto nella profonda comprensione della fenditura stessa che esse producono.
La forza generatrice del Caos, così come la reciproca tendenza all’ordine tendente a ridurre la dissipazione delle energie della Natura, creano, insieme e nella dualità, un movimento cosmico fatto di un  respiro che si espande e si contrae,   dando così origine  sia alla la vita, sia alla sua complessità ed anche alle sue stesse contraddizioni.
(……)
Il Caos corrisponde ad una forza creatrice irrinunciabile, così come l’Ordine corrisponde ad un vettore che ha il  compito di mantenere le strutture e dar loro vita, non ci resta altro da fare che immaginare e fare i conti con  quella linea marginale, ovvero quella fenditura  o quel filo sottile di cemento che non necessariamente separa il nero dal bianco e che, semmai,  ne costituisce la continuità.
Scopriremmo così che  tra il Caos e l’Ordine delle cose,  tra il femminile ed il maschile, vi è un essere umano, che va inteso nella sua profonda complessità, generato nella fenditura, tra disordine e regolarità, tra prevedibilità e imprevedibilità e, in ultima analisi, tra ciò che è frutto del susseguirsi del pensiero umano e razionale, e ciò che corrisponde, invece, alla profonda intuizione che esistono, sparsi nel mondo, centri di pensiero filosofici ed artistici che non sono sepolti, ma solo nascosti.

Perché sono importanti queste considerazioni in una burrascosa realtà sociale e politica come quella che stiamo vivendo?
(continua.................oppure continuate voi.....)

Monday, August 8, 2011

UNA LEZIONE DIVERSA DELLA TRAGEDIA DI OSLO

Egregio Dottor Pio Eugenio Fontana, leggo il suo testo apparso sul CdT del 3 agosto 2011 intitolato “ Quali insegnamenti trarre dalle stragi di Oslo?” e le rispondo pubblicamente da queste colonne in quanto, vista la portata del tema e l’opinione che sembrerebbe voler suggerire al lettore, ritengo imprescindibile che tali argomenti vengano messi sotto la lente di un più ampio dibattito che coinvolga anche altre figure professionali, pensatori o medici che, dell’uso delle armi, hanno opinioni molto distanti dalla sua.



Le dirò subito che il susseguirsi dei sottotitoli che guidano la lettura del suo testo hanno creato in me un effetto inquietante che perdura; così come mi inquietano i contenuti che lei esprime nonché l’accurata selezione degli episodi elencati nel tentativo di dare conforto e rendere più vera la sua ipotesi iniziale, ovvero quella secondo la quale “sarebbe meglio essere armati”. Desidererei, innanzitutto, fornirle un elenco di altri episodi che sembrerebbero non deporre affatto a favore della sua tesi.



E' Davvero meglio essere armati?

Erano armati, caro signor Pio, e lo erano fino ai denti, i militi che scortavano i giudici Falcone e Borsellino. Erano armate tutte le guardie giurate che piantonavano banche e supermercati e che sono stati giustiziate senza pietà da chi della giustizia non sa cosa farsene. Erano armati alcuni miei amici e conterranei che, nell’adempimento del loro dovere, perirono infaustamente perché – come lei sostiene in un passo del suo testo – non reagirono prontamente e si inginocchiarono supinamente ( lei parla di genuflessione!) all’azione dei malviventi.

Si, caro signor Pio, erano tutti armati!

Ma le loro armi più vere erano quelle del coraggio, della buona volontà, della disciplina e, soprattutto, della fiducia che ogni buon cittadino ripone nelle Istituzioni, nello Stato, nella Giustizia e nell’amore per la coerenza!



Il suo scritto, visto da questa per lei nuova prospettiva, mi è parso irrispettoso ed addirittura irritante, come se quelle persone armate del senso più elevato della Democrazia ma – dirà lei - “genuflesse e prone”, fossero state giustiziate per la seconda volta.



Quel triste carnevale

Il mio pensiero, leggendo le sue righe, è subito volato ad un triste carnevale locarnese di alcuni anni orsono ed ho pensato al povero Damiano al quale venne vietato di vivere perché, con tutta probabilità, della violenza egli non sapeva proprio cosa farsene! E non ho potuto fare a meno di pensare alla degna e responsabile reazione della sua famiglia la quale, invece di rispondere con la forza ad una “violenza che crea violenza”, ha ritenuto più saggio, utile e democraticamente sostenibile ingaggiare una battaglia a suon di informazione, sensibilizzazione, dibattiti e sviluppo dell’autocoscienza nei giovani.

Ho trovato altresì irrispettoso il suo scritto anche nei confronti di tutti quei bambini che non sono ancora nati ma che proverranno da famiglie che aborrono l’uso delle armi, che credono nella non violenza, nella società civile, nella democrazia e che saranno concepiti in un atto d’amore, qualsiasi esso sia.



Molti insegnamenti

Si, è vero: i recenti episodi di Norvegia dovrebbero insegnarci molte cose!

Ci insegnano, innanzitutto, che in un’epoca dove il concetto stesso di comunicazione è completamente deprivato dei suoi contenuti più sostanziali, dove tutto viene filtrato dall’immagine e dalle sue manipolazioni, dal cosiddetto “villaggio globale”e dall’azione “Off/On” (accendi quello che ti piace e spegni quello che non ti piace ), dall’usa e getta, e da un’economia mondiale ormai sofferente, è fin troppo facile ributtare tutto sulla minaccia di essere attaccati da un altro uomo - non importa che sia paranoico, pazzo scatenato e oggetto di strumentalizzazione politica - ma che però sia in qualche modo vissuto come pericoloso e nemico.



Il rischio di fraintendimento

In un contesto sociale così disorientato e disorientante, caro signor Pio, l’ipotesi che sia “meglio essere armati” corre il serio rischio di essere fraintesa da tutti coloro per i quali – vittime quasi sempre ignare del loro stesso disagio - la giustizia-fai-da-te è ormai divenuta una molla pronta per scattare. Anzi, essa rischia addirittura di costituire un incitamento ad armarsi, a munirsi di quel coltellino che, nelle notti brave delle “movide” e per motivi inesistenti, è già brillato, insieme al sangue, sotto la cupa luce di silenti lampioni.



Le armi della democrazia

In questo senso, spero che le sia chiaro già sin d’ora che non è certamente disprezzando l’intervento delle Autorità e della Polizia che si aiuta il cittadino a capire il senso della violenza né – tantomeno – lo si aiuta a controllare sue possibili ed inconsulte reazioni. A chi estrae coltello e pistole, semmai, è bene fornirgli tutte quelle giuste considerazioni che lo aiutino a pensare ed a riflettere sui suoi atti immeditati e sul lavoro svolto da una miriade di operatori che agiscono in senso opposto alla violenza.



Noi (e mi riferisco a lei come medico ed a me come psicologo ed insegnante) che – non dimentichiamolo! - ci vantiamo di essere degli umanisti, chiederemmo piuttosto di sostituire al suo consiglio “meglio essere armati” quello senza dubbio più difficile, impervio e doloroso di pensare che sarebbe meglio “se tutti fossero armati di coscienza civile e capacità di riflessione”. Per questa via, sarebbe altrettanto preferibile collaborare con lo Stato e con le sue Istituzioni – anziché criticarle - affinché gli obiettivi comuni di lenire il disagio della Società e gli strazi di povertà e disoccupazione possano davvero essere raggiunti. Ridistribuire meglio il capitale, investire di più nella formazione dei giovani e nella ricerca, dare dignità agli anziani ed alle persone sofferenti, creare posti di lavoro: questi, semmai, sarebbero i bersagli dell’arma della Democrazia che, in sé, non contiene il seme della discordia né della violenza!!!



Un nuovo Umanesimo

Preferiremmo, in conclusione, un nuovo umanesimo capace di rimettere al centro del discorso l’Uomo nella sua essenza, non necessariamente avvalendosi del porto d’armi e di una pretesa legittima difesa, ma auspicando una maggiore e più incisiva presenza del pensiero filosofico sul fatto sociale, sulla politica e sull’economia, non fosse altro che per definire alcune strategie di intervento suscettibili di lavorare per davvero in direzione del benessere della e per la gente.



In un passo entusiasmante del dramma di G.E. Lessing intitolato “Nathan il Saggio”, dopo aver ripercorso l’antica leggenda dei tre anelli e dopo aver tentato di convincere Saladino circa la legittimità delle tre grandi religioni, quest’ultimo, gettandosi ai suoi piedi, disse a Nathan: “Nathan, caro Nathan! I mille e mill’anni previsti dal tuo giudice non sono ancora trascorsi… Il suo tribunale non è il mio… Va’!… va’!… Ma sii mio amico!”



Con queste parole la lascio e mi auguro di poterne ridiscutere in luoghi appropriati, ovvero dove l’obiettivo comune sarà – se saremo lì e, quindi, per forza di cose - quello di lavorare e riflettere sul senso di appartenenza in seno ad una società che di tutto ha bisogno tranne che della violenza in risposta alla violenza.

Sarebbe anche opportuno, nello stesso ambito, chiarire una volta per tutte il significato del termine “insegnamento”, ovvero quell’atto che consiste nel donare a chi “ancora non sa” tutti quegli strumenti cognitivi, affettivi ed emotivi che gli permetteranno in seguito di appropriarsi del sapere in modo autonomo, riflessivo e consapevole.



Alberto Giuffrida

Psicologo Clinico e Docente